L’hangar, come mi piace chiamarlo, andava svuotandosi, lentamente.
La musica dei deejay cercava di non offendere troppo le orecchie addomesticate da un’ora di Massimo Volume.
Durante il concerto Emidio Clementi, il cantante e bassista del gruppo, indossava una camicia dal vago retrogusto messicano, con quella coppia di rose…e dai jeans spuntavano due stivali da cowboy.
Dopo l’ultimo bis, dopo aver sorseggiato uno schifo di birra dimenticata chiusa sul palco da uno dei musicisti, io ero là, ad aspettare di uscire.
L’uscita era stretta, ma soprattutto era il lago il problema.
Fuori pioveva e si era formato un lago, tra l’hangar ed il pub del Brancaleone, un lago sul quale era stata arrangiato un sentiero fatto di mattoni di pietra arenaria.
Passando da un mattone all’altro, pensavo al mio ritorno in motorino.
Non sembrava così pesante.
Nell’attimo in cui entrai nel pub mi chiesi:
potrei aspettare l’alba senza fatica.
Era un pensiero azzardato e bugiardo, ma forse qualche minuto sarei riuscito ad attendere. Attendere la fine della pioggia.
Guardai l’orologio: la gente usciva ogni secondo dal locale con il sorriso sulle labbra, soddisfatta.
Sì, è stato un gran bel concerto.
Non avevo incontrato Simone e, non so esattamente perché, non credo che lui fosse venuto. E’ da parecchio che non vedo quello stronzone, non si fa mai sentire, con i suoi impegni da uomo adulto.
Ed è stato lui a farmeli conoscere, durante il nostro buon vecchio servizio sostitutivo civile.
Mi alzo dall’angolo nel quale mi ero seduto e mi avvicino verso la porta che dava all’esterno.
Si può sapere se ha smesso o se per quando si deciderà a smettere ?
Non riuscivo a capirlo e provai ad infilare la testa fuori.
Pioveva ancora.
Gettai uno sguardo dentro al centro sociale, alle luci basse e alla musica elettronica che rendevano le persone rimaste più grandi e più fisiche del normale.
La differenza di temperature, tra fuori e dentro, era notevole.
Presi forza dall’aria fresca e umida e mi avventurai nel buio.
Pochi metri più avanti ecco il mio motorino, ripieno di tutto il necessaire per un buon viaggio.
Prima di tutto, svuotai quella che era rimasta della birra schifosa per terra, offrendola ai morti come protezione per il mio ritorno a casa.
Sotto le note lievi della pioggia, non più capace di creare laghi a chicchessia, iniziai un ramadan volontario: mi sfilai il giaccone di pelle per mettermi il maglione di rinforzo, poi la sciarpa, mi rimisi il giaccone, il casco schiaccia orecchie, i guanti.
Tolsi infine la catena al motorino e riscaldai il motore.
Ero pronto a partire.
La strada mi accolse male, non sembrava proprio volermi accettare sulle sue vene di cemento umide, per non parlare dei fottuti san pietrini, pregni anch’essi d’acqua.
Feci un po’ di strada. A quell’ora di notte il traffico era tranquillo, godevo nell’ammirare dallo specchietto retrovisore il vuoto.
Non durò molto.
Al complotto della pioggia si unirono due partecipanti funesti: quei cazzetti gialli che dividono la corsia dei bus da quella delle auto, una linea continua ma non abbastanza visibile e, come secondo, qualcuno che credevo quasi un fratello. Un po’ ammaccato e storto, forse, ma comunque una cosa cara, il parabrezza.
Cavalcando il motorino imbizzarrito sopra ai cazzetti gialli, riempiendo l’aria intorno a me di parolacce, mi accorgevo di quanto poteva essere noiosa l’attesa prima di cadere.
Non sapendo bene cosa fare per non schiantarmi, sperando di non farmi troppo male.
La prima volta mi andò bene, la seconda un po’ meno, soprattutto per il parabrezza, sempre più ammaccato.
Alla fine sono riuscito a tornare a casa, con qualche livido e contusione, ma intero. Anche il motorino è un po’ acciaccato, ma intero.